29 ottobre 2010

Santi per vocazione

LETTERA A TUTTI I FEDELI DELLA CHIESA AMBROSIANA
Anno pastorale 2010-2011 (2a puntata)

La parabola della carità che si dona

Nel Vangelo di Luca la parabola del Buon Samaritano è la parabola della carità, il frutto della Pasqua di Cristo.

Ed ecco, un dottore della Legge si alzò per metterlo alla prova e chiese: «Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?». Gesù gli disse: «Che cosa sta scritto nella Legge? Come leggi?». Costui rispose: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso». Gli disse: «Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai». Ma quello, volendo giustificarsi, disse a Gesù: «E chi è mio prossimo?».

Gesù riprese: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e, quando lo vide, passò oltre. Anche un levita, giunto in quel luogo, vide e passò oltre. Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione.
Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in un albergo e si prese cura di lui.

Il giorno seguente, tirò fuori due denari e li diede all’albergatore, dicendo: “Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno”. Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?». Quello rispose: «Chi ha avuto compassione di lui». Gesù gli disse: «Va’ e anche tu fa’ così» (Luca 10,25-37).

La tradizione spirituale ha sempre riconosciuto in quel viandante, percosso e abbandonato sul ciglio della strada, semplicemente l’uomo, l’adamo di ogni tempo, che nella vita terrena attraversa la sofferenza, la solitudineogni genere di difficoltà e di abbandono.

Il Buon Samaritano che gli si fa vicino è innanzitutto icona di Cristo, il Salvatore, che si china sulle piaghe dell’uomo di ogni tempo, di ogni razza e di ogni condizione. Gesù crocifisso rivela così la più alta espressione dell’amore del Padre, che san Carlo ha contemplato nella preghiera e sperimentato nella penitenza, e che ha amato concretamente, dando slancio e forza alla sua straordinaria opera di carità e di riforma della Chiesa.

Ma il Buon Samaritano è anche figura della Chiesa che, testimone della santità di Cristo, ancora oggi desidera ed è capace di chinarsi sulla sofferenza umana. La Chiesa, senza chiusure e senza egoismi, imita e ricerca la santità del suo Signore, in un continuo esercizio di carità pastorale dentro la comunità e in una appassionata vicinanza ad ogni necessità umana. C’è troppo individualismo ed egoismo anche in noi e nelle nostre comunità ed è forte la tentazione di non voler vedere i poveri, i nuovi poveri di oggi e le nuove necessità della crisi e del tempo presente.
San Carlo ci sproni a questa santità, lui che è stato capace di una fortissima conversione, uscendo dal suo mondo e dalla cultura della sua famiglia, facendosi debole per i deboli, per guadagnare i deboli e facendosi tutto per tutti, per salvare a ogni costo qualcuno (cfr 1Corinzi 9,22-23).

Il Buon Samaritano, infine, esprime la biografia di ogni cristiano, il quale imita la santità di Cristo, unico Salvatore, e raccoglie tutta la propria vita in un’unica grande vocazione, che si esprime nell’imparare ad amare come Gesù. Infatti, mediante la carità, la vita del discepolo raggiunge un fine eterno e va oltre la tentazione di vivere un’esistenza estremamente frammentata e rivolta all’immediata soddisfazione di sé. Sperimenta così il coraggio di gesti di autentica libertà e di amore pieno e definitivo per il bene degli altri.

SAN CARLO E LA CROCE DI CRISTO

Il “paradosso” della croce di Cristo

L’incontro con il Vangelo, che costruisce la santità della vita, oggi più che mai conserva e manifesta il suo carattere paradossale. Infatti, da un lato esprime la gioia dell’esistenza, dall’altro mostra la necessità del dono di sé fino a morire. La croce di Cristo, cioè il suo amore speso fino alla morte (cfr Giovanni 13,1), rappresenta il punto più alto e più critico del cristianesimo.
È proprio di fronte al discorso duro della croce che Gesù ha coraggiosamente detto ai suoi discepoli: Volete andarvene anche voi? Il Vangelo ricorda che da quel momento molti dei suoi discepoli tornarono indietro e non andavano più con lui (Giovanni 6,66). La critica più forte e più acuta che il mito di un naturale e progressivo benessere, ricercato per se stesso all’infinito, pone al cristianesimo, verte proprio sull’affermazione della morte e della certezza della risurrezione. Una morte a cui non si vuole pensare e una risurrezione in cui non si riesce a credere.
Credi tu questo? (Giovanni 11,26), dice Gesù a Marta, sorella di Lazzaro, dopo averle rivelato: Io sono la risurrezione e la vita. Questa domanda interpella, ancora oggi, la coscienza di ogni cristiano e, sotto aspetti diversi, anche quella di ogni uomo.
Dai tempi di san Paolo a Corinto fino alla cultura contemporanea delle nostre città, la croce esprime il punto più provocante della fede cristiana e ne mette in luce l’apparente stoltezza e l’inevitabile scandalo: noi annunciamo Cristo crocifisso: scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, Cristo è potenza di Dio e sapienza di Dio (1Corinzi 1,23-24).
Oggi il rischio che corriamo, anche nelle nostre comunità, è quello di svuotare il cristianesimo dall’interno. Infatti, talvolta, da un lato lo affermiamo formalmente con le nostre parole e le nostre liturgie, dall’altro non vogliamo accettare che il benessere individuale o di parte, cioè lo star bene da soli, non sia secondo il cuore di Cristo.

La parola della croce deve scandalizzare di nuovo le nostre comunità, perché non possiamo pensare all’esistenza umana, ferita dal peccato e dalla morte, semplicemente come a un vitalismo di sensazioni immediate e gratificanti. Non possiamo coltivare uno stile di vita che eviti ogni disciplina personale contro l’orgoglio e l’egoismo, o che sia volto ad eliminare qualunque genere di sacrificio necessario in ogni amore cristiano.
Il fascino e il paradosso del Vangelo possono essere ancora ritrovati, soprattutto dalle giovani generazioni, solo attraverso l’esercizio di una nuova povertà, molta preghiera, una vera ricerca del significato delle cose, una grande onestà personale e politica e l’affermazione del bisogno di una nuova eternità.

Carlo Borromeo e l’amore al Crocifisso

San Carlo, nella preghiera, rivolge con insistenza lo sguardo al Crocifisso, ne è ferito in profondità e, spesso, le persone più vicine lo sentono gemere e lo vedono piangere.
Chiediamo la grazia di essere introdotti a condividere i sentimenti di san Carlo in preghiera, la sua concentrazione, l’intensità della sua partecipazione al mistero della morte di Gesù in croce, sorgente della vera carità.

Per me, per noi sarebbe una grazia grande che segna una vera e propria svolta nella vita: una preghiera che non sia solo adempimento di un dovere, continuazione di una buona abitudine, ripetizione di formule - anche belle -, pratica di riti celebrati con dignità e attenzione.
Ci vuole una preghiera come quella di san Carlo, una preghiera che conosce “gemiti e lacrime”, una vera relazione personale con il Signore Gesù, il Crocifisso: una preghiera che si fa intensa, appassionata, penetrante come una ferita feconda di amore.
San Carlo ha condiviso i sentimenti di Gesù, soprattutto quello di rimanere nella volontà del Padre fino al compimento, cioè al dono della vita per i suoi amici. Contemplando il Crocifisso, il Borromeo si è fatto buon samaritano nella sua Chiesa e nel suo tempo.
Ma noi viviamo un’esperienza di preghiera autentica quando diciamo le nostre preghiere in fretta e distratti, con il risultato di rimanere estranei ai sentimenti di Cristo? Se non siamo capaci di pregare, che cosa dobbiamo dire della nostra fede in Cristo?
(continua)