27 agosto 2016

SPECIALE CAMPUS DELLA PACE

Da Avvenire del 18 agosto 2016 riportiamo l’articolo di Rosanna Virgili che ci aiuta a leggere dentro il dramma che si consuma ad Aleppo. L’articolo termina con l’interrogativo ineludibile alla coscienza di ciascuno… 

Aleppo, l'inganno e la sete: decapitare la guerra

«Ci avete fatto credere che le guerre non ci sarebbero più state», mi ha detto un sedicenne qualche giorno fa. «Ci avete ingannati». L’accusa era diretta agli adulti e subito ho replicato: «Perché accusi noi? Che ci possiamo fare?». Ma quelle parole hanno costretto me, una semplice cittadina italiana, a una onesta riflessione.
Dall’agosto 2012 Aleppo è in guerra. Quattro anni giusti. Una pressione che ha trasformato la città 'patrimonio dell’umanità' dell’Unesco, in una gabbia infernale. Dagli inizi di Giugno 2016 è cominciata a mancare seriamente l’acqua ed è di una decina di giorni fa la notizia che le riserve sarebbero durate soltanto qualche giorno. In una guerra che si è tradotta dal fuoco – delle uccisioni fatte con le armi – all’acqua – del blocco delle stazioni di pompaggio, l’emergenza sta diventando l’esecuzione di una condanna a morte.
C’è chi ha deciso che «Aleppo deve morire», ha concluso amaramente su questo giornale, lo scorso 14 agosto, Andrea Riccardi. La scarsità delle risorse idriche è sempre l’ultimatum in una guerra. Un urlo di minaccia e di vergogna che giunge sino a noi dalle immagini tivù e dagli articoli di alcuni giornali, cui sta facendo seguito – ahimè! – una sostanziale passività. Solo chi si trovi sotto le bombe o chi abbia a cuore davvero quella povera gente cerca di rompere l’indifferenza con accorati appelli. Volontari di associazioni umanitarie, religiose e religiosi rimasti fedelmente ad Aleppo, l’arcivescovo greco-cattolico Jean-Clément Jeanbart, Save Aleppo e molti altri. Ma dai più l’inerzia, mentre il tempo si è fatto breve: pochi giorni per salvare Aleppo.
All’inizio di questo lungo conflitto più soluzioni erano ancora possibili, molte vie d’uscita ancora praticabili. La prima era quella diplomatica, in qualche modo battuta anche da papa Francesco quando – nel settembre 2013 – inviò una lettera a Putin (che in quell’anno presiedeva il G20) auspicando una soluzione politica e pacifica alla crisi siriana. Un gesto accompagnato dalla veglia di preghiera convocata in Piazza San Pietro il 7 settembre 2013 e dall’invito al digiuno solidale rivolto a credenti e non credenti. Chi c’era quella notte avrà impresso nell’anima il sigillo della supplica silenziosa che andava a formare un coro struggente per la pace in Siria. Diplomazia, preghiera e digiuno furono efficaci e la guerra non venne 'dichiarata' ufficialmente dai Paesi del G20. Ma la si lasciò fare, anche nutrendola di soldi e di armi. Mentre gran parte dell’informazione è stata spesso distratta, gli anni son passati finché non sono arrivate le grandi ondate dei profughi a bussare alle porte dell’Europa. Con gli occhi fissi sull’incubo migratorio, i popoli europei non hanno subito distinto, in quelle lunghe file da esodo biblico, e si è fatto fatica a spiegare che si trattava in tantissimi casi di persone e famiglie che scappavano da Aleppo, martoriata da uno spietato assedio. Gli aleppini più abbienti e previdenti avevano intuito come sarebbe andata a finire e preferito l’esodo alla morte, accettando di rischiare qualsiasi fortuna.
Ma c’è un tempo per scappare e uno per salvare. Arriva il momento in cui neppure l’esodo è più possibile. Cosa fare quando si stringe l’assedio? La nostra storia, in questo campo, è tristemente generosa di suggerimenti letterari e no. Da quello omerico di Ilio, dalle pagine di poliorcetica di Enea Tattico, fino al terribile assedio di Sarajevo, il più lungo dell’epoca moderna, durato anch’esso quattro anni (dal 1992 al 1996). Popolata da arabi, armeni, turchi, curdi, circassi, trecentomila i cristiani di dieci confessioni che ne facevano la terza città cristiana del Medio Oriente e, insieme, capitale della cultura islamica, Aleppo è – come scrive Riccardi – un vero miracolo di «pace e convivenza». Antica capitale del Regno Hittita, luogo di inestimabile valore archeologico, culla di culture nate da mille intrecci, sede secolare del Codice di Aleppo (il primo Codice vocalizzato della Bibbia ebraica, anch’esso costretto alla fuga e ora conservato a Gerusalemme), crocevia tra Oriente e Occidente sulla via della seta; altresì la città più grande della Siria (prima di questa guerra), la Milano e la New York siriana: perché mai si lascia che tutto questo venga distrutto? Alla forza dell’appello vorrei aggiungere quella della querela, della denuncia, dell’interpellanza. Non rivolta al Cielo e neppure ai veri 'burattinai' che – su fronti opposti – giocano la loro partita sul campo di carne della gente, perseguendo i loro cinici interessi. Di loro si sa che seguono altre logiche.
Rivolgiamo la querela ai governanti delle nazioni, a chi si occupa di politica e del bene comune e resta a guardare, o si gira dall’altra parte, mentre vite e valori inestimabili muoiono o vengono distrutti; la rivolgiamo a chi ha espresso un giudizio storico sull’assurdità di ogni guerra, a chi ha rigettato e promesso che certe brutalità non sarebbero mai più accadute in Europa e che non dovessero mai accadere da nessun’altra parte del mondo. Questa stupita interpellanza è verso le istituzioni come l’Onu, che si mostrano lente a reagire e con le mani legate dinanzi a situazioni siffatte, scopo per cui esse trovano, peraltro, la stessa ragion d’essere (e non basta l’appello di ieri del segretario Ban). E ancora verso tutti noi, cittadini europei e cittadini americani, ma anche siriani, russi, turchi. Noi europei che negli anni Novanta del secolo scorso proclamammo a gran voce: «Mai più Sarajevo». E che oggi, di fronte a quella che già viene chiamata la «nuova Sarajevo», restiamo muti e senza protestare di fronte al fantasma che ritorna, ai vecchi cadaveri dell’orrore che camminano di nuovo indisturbati sul tappeto dei nostri schermi televisivi.
La denuncia è verso gli intellettuali: dov’è, fuori da queste pagine, un pensiero continuo e profondo su quanto sta atrocemente ri- accadendo? Dov’è un giudizio, una 'resistenza' almeno teorica a tanto disprezzo ri- portato contro ogni dignità umana, prima ancora che contro ogni diritto civile? Perché si mostra impossibile realizzare quella «trasfusione di memoria» che Elie Wiesel invocava come unico ed efficace rimedio? La querela è alla coscienza di ognuno, a cominciare dalla nostra. Non si può accettare che non si sia riusciti a costruire nulla di nuovo sotto il sole. Che si debba ancora veder morire i civili di sete, i bambini di ogni tipo di violenza, i malati, di bombe sugli ospedali. Lo splendore e la ricchezza delle città ridotte in macerie e invase dall’ululato della fame, dello spavento, delle epidemie. E tutti gli inermi arresi alle più varie ragioni degli armati. Che ancor oggi a chi sta morendo di sete si dia aceto, invece che acqua, come accadde allo stesso Gesù di Galilea. Verso tutto ciò come si può non avvertire una viscerale rivolta?
Non so se a quel sedicenne che mi ha apostrofato basterebbe come risposta questa riflessione. Nella Bibbia cattolica c’è un libro che è intitolato a una donna: Giuditta. Chi lo conosce avrà pensato al suo racconto, guardando l’Aleppo di oggi. La climax è, infatti, la stretta finale di un lungo assedio e la sete che si scatena nella città di Betulia. Le provvigioni d’acqua erano, a quei tempi, reperibili da due vie: il cielo, con la pioggia, e i pozzi. Questi ultimi erano più spesso collocati fuori dalla cinta muraria, pertanto irraggiungibili, durante un assedio. Solo per cinque giorni Betulia sarebbe sopravvissuta alla sete! Proprio come Aleppo. Ma lì accadde qualcosa che rovesciò la sorte dei suoi abitanti e fu per decisione di una donna. Pur non avendo nessun ruolo politico, istituzionale, né militare, od altro; benché nessuno l’avesse non solo autorizzata, ma neppure chiamata a intervenire in quella situazione, Giuditta sentì che nessun cittadino potesse assistervi senza far nulla. Che non le fosse lecito restare inerte di fronte allo spettacolo indegno di un’intera popolazione che moriva di sete. Lei disse 'no!' alle prese di posizione timide e un po’ vigliacche del re della città e si mise in gioco di persona per salvare Betulia. Non perse tempo e in quei cinque giorni usò fantasia e coraggio, umiltà e preghiera per neutralizzare la forza enorme dell’esercito della Morte. «Farò un’impresa che sarà ricordata per sempre», disse Giuditta (Gdt 9,32). E così avvenne.
Perché noi non ci riusciamo? Perché non sappiamo fermare simili massacri? Perché l’Europa che si è costituita come un «baluardo di pace» dopo gli orrori del Novecento, si mostra ancora impotente? Giuditta vinse con la sapienza che acquista chi ami veramente il suo popolo, chi consideri ogni popolo come parte di sé. La testa di Oloferne, il generale assiro che assediava Betulia e che nella sua superbia soccombette a Giuditta, va intesa come metafora per dire che non ci fu alcuna strage, ma l’idea stessa della guerra fu 'decapitata'. E la vittoria fu della Vita.

In questo scenario acquista maggior significato il CAMPUS DELLA PACE.

Il Campus della pace nasce da un’intuizione di don Giovanni e ha trovato sostegno e collaborazione nelle istituzioni e in alcune associazioni locali. Si rivolge agli adolescenti di diverse provenienze culturali e religiose che vivono in quartiere e ad un gruppo di studenti di Sarajevo. Le giornate alternano momenti ricreativi e culturali, gesti di condivisione e conoscenza reciproca, incontri significativi e altri festosi.
La settimana avrà nell’oratorio di Maria Madre il proprio ’campo base’ a partire da martedì 23 con la serata di accoglienza sino a mercoledì 31 agosto. Per informazioni don Giovanni.